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Un anno fa, all’indomani della prima edizione della Maker Faire, definimmo l’evento “epico”, perché in effetti tale ci sembrava in virtù di alcuni dati, a cominciare naturalmente dai 30.000 visitatori (a fronte di una previsione di meno di 10.000).
Il che pone, oggi, un piacevole problema; come definire la Maker Faire di quest’anno -conclusasi ieri-, che i vistatori li ha visti triplicare?Forse è meglio lasciare questo dubbio amletico senza risposta, se non altro perché c’è il serio rischio di ritrovarsi, fra un anno, col medesimo “problema”.

Ciò che non si può evitare, invece, è una riflessione sull’evento in generale, il cui successo non si può ridurre soltanto al pur impressionante numero di visitatori registrati; il successo della MFR14 lo si poteva percepire, più che misurare, in questi giorni, semplicemente guardando i volti di chi si affacciava incuriosito a questo mondo fatto di stampanti 3D, di Arduino, di Open Source e tutto il resto. E i volti più entusiasti erano quelli dei più giovani, a cui non a caso gli organizzatori hanno voluto riservare una giornata intera, e per giunta quella inaugurale.

C’era un qualcosa di quasi surreale, nel passeggiare tra gli stand del Parco della Musica. Veniva da chiedersi se davvero si trattasse dello stesso Paese delle autostrade mai finite, della burocrazia spaventosa e delle mille tangentopoli, o se invece non si fosse all’interno d’ una grossa cupola tipo Under The Dome, calata a mo’di protezione delle migliore menti sulla piazza.
E la risposta è che sì, si tratta dello stesso paese. Per quanto possa sembrare strano.

Un Paese in cui -come saggiamente ricordava la mostra di Make in Italy- non c’è bisogno di tornare retoricamente a Leonardo da Vinci e Michelangelo per imbattersi in personaggi che hanno fatto la storia della tecnologia; in Italia sono nate persone e aziende (una su tutte: la Olivetti) che hanno dato un contributo fondamentale al progresso tecnologico anche nel secolo scorso.

E il messaggio della Maker Faire è stato chiarissimo; possiamo farlo ancora, e anzi in parte -nonostante tutte le difficoltà- lo stiamo già facendo. Con le startup, ma anche con i FabLab, le communities del software Libero, i co-working e tutto il resto.
Ecco, alla Maker Faire si è avuta un’anteprima di cosa potrebbe invece succedere se questo mondo dei cosiddetti “Maker” diventasse un modello da seguire e su cui rifondare (ripensandola) l’economia, ma forse la società in generale. Perché in effetti questo c’è, di diverso, nella “Terza Rivoluzione Industriale” rispetto alle precedenti: l’essere supportata da una filosofia di fondo, “incarnata” nelle parole Open Source e riassumibile nel concetto che il progresso è tanto maggiore e tanto rapido quanto più libera e diffusa è la circolazione delle idee e della conoscenza.
E dunque nelle scuole servirebbero sì più investimenti, ma forse ancor più un cambio di mentalità nella stessa didattica. Una scuola incentrata sul fare, in cui anche la conoscenza teorica -che del “fare” è conditio sine qua non– abbia uno scopo concreto; insegnare la matematica per imparare a programmare, le scienze per fare esperimenti, e -perché no- l’italiano per scrivere manuali open source e gratuiti destinati ai posteri.
Passeggiando tra gli stand della Maker Faire si poteva vedere un’anteprima di cosa potrebbe essere normale un domani, con questo approccio: ragazzi che -rispondendo a domanda- svelano d’avere rispettivamente 14, 15 e 16 anni, e che hanno un loro spazio nella Fiera con i robot ballerini.

Gli organizzatori, Riccardo Luna e Massimo Banzi, hanno ringraziato tutti quelli che hanno partecipato, ma è evidente che sono prima di tutto loro a meritarsi i ringraziamenti, per aver saputo dare un punto di riferimento concreto (cioè un evento annuale) a un movimento che ne aveva effettivamente bisogno, perché vasto -e in continua crescita- ma un po’ “scoordinato”.