Domenica scorsa la trasmissione Presa Diretta si è occupata del tema della scuola (qui si può rivedere la puntata).
In maniera tutt’altro che artificiosa e “per par condicio”, il servizio è stato diviso in due parti, la prima delle quali dedicata alla denuncia dei problemi che affliggono l’istruzione pubblica in Italia, la seconda riservata invece a mostrare i casi di eccellenza e di buone iniziative che, nonostante tutto, ancora nascono a tutte le latitudini.
Ora, è su quest’ultime che il presente articolo vorrebbe soffermarsi, cercando di dare un contributo al dibattito.
Una premessa è d’obbligo; dare spazio e voce a chi cerca di innovare la didattica è senz’altro sacrosanto. A prescindere dall’idea che ciascuono può avere di quale metodo didattico possa risultare il più proficuo ai fini dell’apprendimento, tutti i casi virtuosi citati da Presa Diretta (l’Istituto Labriola di Ostia, l‘ITIS Majorana di Brindisi e il liceo Lussana di Bergamo) hanno il merito d’essersi quantomeno posti il problema di come innovare la didattica, in un mondo che cambia a velocità supersonica e in cui la classica lezione frontale sembra davvero sempre più obsoleta.
Un aspetto su cui vale tuttavia la pena soffermarsi è quello dell’approccio che è auspicabile avere nei confronti della tecnologia. Quando si parla di “Classi 2.0”, tra le parole che più spesso compaiono (anche nelle presentazioni ufficiali) ci sono “tablet” e “lavagne interattive”. La sensazione, in generale, è che esista la convinzione che riempire una classe di dispositivi elettronici -ad esempio sostituendo i quadernoni e i libri con i tablet- sia di per sé sufficiente a migliorare l’efficacia della didattica. Non a caso, digitando “Classe 2.0” su Google immagini il primo risultato che il motore di ricerca restituisce è quello di un bambino intento a interagire con un futuristico dispositivo elettronico, trascinando dei non meglio precisati quadrati da una parte all’altra dello schermo.

Guardando questa immagine torna subito alla mente il libro “Demenza digitale” di Manfred Spitzer. Tesi di fondo del volume -supportata ovviamente da studi clinici e analisi statistiche- è che un’esposizione precoce alla tecnologia digitale non solo non migliora le capacità intellettive del bambino, ma anzi le riduce. L’argomentazione è piuttosto semplice: il cervello umano funziona allo stesso modo del resto del corpo: è tanto più reattivo quanto più lo si tiene in esercizio. Dunque, come una vita eccessivamente sedentaria indebolisce il corpo, così un utilizzo eccessivo di tecnologie “semplificatrici” rischia di inebetirci.
E tra gli esempi che Spitzer cita c’è proprio quello della lavagna interattiva su cui il discente trascina prefissi e suffissi (fondamentali nella lingua tedesca) da una parte all’altra dello schermo; in questo caso lo sforzo mentale è ridotto al minimo (le parole sono già scritte, devono solo essere trascinate). Tutt’altro valore educativo avrebbe l’esercizio se l’alunno fosse chiamato a scrivere le parole a mano su un foglio, anche ripetutamente: qui lo sforzo mentale sarebbe moltiplicato (occorre memorizzare una forma, riprodurla su un foglio e ripetere l’esercizio più volte). E’ il problema del “copia-incolla”, insomma, che risulta ovviamente di estrema utilità in ambito lavorativo -laddove l’esigenza è quella di ottimizzare il tempo- ma si rivela controproducente in contesto educativo; sapere di poter spostare, tagliare, copiare e incollare interi paragrafi di testo con due semplici “click” riduce la capacità di pianificare ciò che si deve scrivere. Fare la stessa cosa a mano implica uno sforzo ben maggiore, il che obbliga chi scrive un tema a creare una scaletta degli argomenti, a redigere una brutta copia e infine trasporre il tutto in bella copia.
A questo punto la domanda che il lettore si porrà è: dunque bisogna rinunciare alla modernità? La risposta, ovviamente, è no. Ciò che serve è educare alla tecnologia: e, fortunatamente, viviamo in un’epoca che, da questo punto di vista, offre opportuità straordinarie, grazie alla diffusione di microprocessori (Raspberry PI, Arduino, Udoo, Viper), del Software Libero e della stampa 3D. Basta dare un’occhiata alla sezione “learn”della Adafruit per rendersi conto di quello che si può realizzare con questi strumenti. Un tablet o un laptop, ad esempio, sono strumenti che in una classe gli studenti potrebbero auto-costruirsi, partendo da un Raspberry PI o schede analoghe.
E il discorso vale anche per le “mitiche” LIM. Mi riferisco naturalmente alla WiildOS, la lavagna interattiva multimediale fai-da-te e low-cost creabile tramite un Wiimote, una penna IR, un proiettore ed (eventualmente) un adattatore Bluetooth. Di seguito un video di presentazione.
Ma è possibile tracciare una sorta di “linea-guida”, individuare un modello teorico a cui far riferimento?
Credo che la risposta l’abbia data Pekka Himanen, nel volume “L’etica Hacker e lo spirito dell’età dell’informazione“. Nella seconda parte del libro, al capitolo 4, Himanen descrive il modello hacker di apprendimento (che a suo dire trova un antecedente storico nell’Accademia platonica).
Questi i punti salienti del paragrafo in questione:
Il “tipico” processo di apprendimento hacker ha inizio con l’individuazione di un problema interessante, quindi lavora per risolverlo usando fonti diverse, e poi sottomettendo la soluzione a test prolungati. (…) Gli esempi sulla capacità dei ragazzini di 10 anni di padroneggiare questioni di programmazione molto complesse ci insegnano parecchie cose sull’importanza della passione nel processo di apprendimento (…).
Un punto di forza fondamentale nel modello di apprendimenot hacker sta nel fatto che ciò che uno di essi impara poi lo insegna agli altri. Quando un hacker studia il codice sorgente di un programma, spesso lo sviluppa ulteriormente, di modo che altre persone possano imparare da questo lavoro. (…) Intorno ai vari problemi si sviluppa una discussioen continua, critica, evolutiva. La ricompensa per la partecipazione a questa discussione è il riconoscimento dei pari.
Il modello di apprendimento aperto degli hacker può essere definito come “Accademia della Rete”. E’ un ambiente di apprendimento in continua evoluzione creato dagli stessi hacker, un modello che presenta molti vantaggi. In questo mondo, gli insegnanti o assemblatori di fonti di informazione sono spesso quelli che hanno appena imparato qualcosa. E ciò è utile, perché sovente qualcuno da poco impegnato nello studio di un argomento ha maggiori possibilità di insegnarload altri, rispetto all’esperto che non ne ha più familiarità quotidiana e ha, in certo senso, perso la padronanza dei meccanismi di pensiero dei neofiti. Per un esperto, immedesimarsi con chi sta imparando qualcosa richiede livelli di semplificazione ai quali spesso resiste per motivi intellettuali. E non necessariamente l’esperto può trovare soddisfacente insegnare i concetti di base. Al contrario, uno studente potrebbe ritenerla un’attività estremamente gratificante, dal momento che, di regola, non gode della posizione di istruttore e di solito non gli vengono offerte sufficienti opportunità di usare il proprio talento. Il processo di insegnamento implica anche, proprio per sua natura, un’analisi esauriente dell’argomento. Se si è veramente in grado di insegnare qualcosa ad altri, l’argomento deve già essere chiaro a sé stessi.
Individuazione di un problema interessante, ricerca e condivisione con altri delle possibili soluzioni e apprendimento “orizzontale”, in un modello in cui, per essere insegnanti, occorre “solo”dimostrare di conoscere una materia (ai propri allievi, non a commissioni statali incaricate di ditribuire attestati). Un modello che già esiste nei -fortunatamente- sempre più numerosi Hackerspace e FabLab, in Italia come nel resto del mondo.
E chissà che, un giorno, questo modello non riesca a “conquistare” anche le scuole pubbliche.